Marcello Barison, La palude approssimativa

🇮🇹 Essay for La palude approssimativa, Marcello Barison's solo show at Ninni Esposito Arte Contemporanea, Bari, December 3 2016

 

La palude è sempre se stessa, e tuttavia è sempre altro.

G. Manganelli, La palude definitiva

Grazie alla forma le opere […] sembrano annunciare in ognuno dei propri momenti una sola e precisa cosa, e questa sfugge.

T. W. Adorno, Teoria Estetica

Scrivere della pittura di Marcello Barison è per me ufficio ambizioso e, al tempo stesso, delicato. Non già perché i complessi e raffinati coaguli di segni, di escoriazioni e abrasioni, di tumescenze e lacerazioni pitturali che popolano le sue tele e le sue carte necessitino dell’intervento di un interprete. A riguardo è lo stesso Barison a fugare ogni dubbio: egli sostiene, infatti, che l’arte «non va spiegata e tanto meno motivata teoreticamente». Al contrario essa va «compenetrata»: che equivale a lasciarsi pervadere dall’opera d’arte e a un tempo introdurvisi, diventare tutt’uno con essa. Che ruolo potrebbero mai giocare, in questa idea dell’arte, l’interpretazione e la comprensione di un’opera? Marginale, senza dubbio, e quasi paiono compendiarsi, nelle parole di Barison, certi passi dell’Adorno di Teoria Estetica:

«Stupirsi del carattere di enigma riesce difficile a colui per il quale l’arte non è, come per chi è estraneo all’arte, un divertimento o, come per l’intenditore d’arte, uno stato d’eccezione, bensì la sostanza della propria esperienza».

O ancora:

«Quanto meglio si comprende un’opera d’arte […] tanto meno però essa dà lumi sulla propria costitutiva enigmaticità. Questa diventa di nuovo eclatante solo nell’esperienza artistica più penetrante».

Proprio perché persuaso, a mia volta, del carattere di enigma dell’arte, il mio compito s’annuncia insidioso: si tratta di indossare gli odiosi panni dell’«intenditore d’arte», quindi industriarsi per scrivere qualcosa senza la presunzione di poter spiegare alcunché. Ma anche ammesso che io volessi farlo, s’aggiungerebbe allora un’altra difficoltà: in Marcello Barison (artista e professore universitario di estetica) la vocazione del pittore coabita con quella del filosofo. Le due cose sono tutt’altro che incompatibili, come prova certa grande pittura novecentesca ‒ si pensi a Kandinsky e Klee ‒ e anzi la coesistenza tra produzione artistica e produzione teorica in uno stesso soggetto, implica che la prima proceda di pari passo allo scrutinio, all’investigazione e al guardo critico della seconda. A maggior ragione si coglierà la natura rischiosa e poco opportuna, da terzo incomodo, della mia intromissione nell’equilibrio di un uno e doppio perfettamente funzionante, auto-critico e auto-cosciente.

Ciononostante mi lancio, e mi attardo pensando in cosa diverga l’attività dell’artista da quella del filosofo. Mi torna utile un episodio dell’Abécédaire di Gilles Deleuze, dove questi formula un distinguo, divenuto celebre, tra le suddette categorie. Filosofo è quell’individuo che forgia concetti. Missione dell’artista, invece, sarebbe il creare percetti e cioè, secondo Deleuze, quell’«insieme di percezioni o di sensazioni che sopravvive a colui che le prova». Un’opera d’arte ‒ sia essa sotto forma di dipinto, romanzo, sinfonia, film… ‒ avrebbe dunque funzione di engramma, atto a tramandare allo spettatore la memoria percettiva di un’esperienza vissuta dall’artista. Tesi suggestiva, alla quale occorrerebbe aggiungere che, oltre ad una certa dose di percetti determinabili ‒ cioè limitati al vissuto dell’artista ‒ ogni grande opera d’arte si fa tramite di un percetto che è destinato a permanere oscuro: un impercetto, dunque, un secretum che né essa, né l’artista, né alcun critico sarà mai in grado di rivelare. Le «opere d’arte ‒ torna qui a parlarci Adorno ‒ dicono qualcosa e con lo stesso respiro lo nascondono».

Per questo, è rischioso affermare che quella di Marcello Barison sia un’arte della sensazione: commetteremmo una grave leggerezza se adoperassimo quest’ultima parola nel segno dell’imbarbarimento semantico di cui essa è stata progressivamente vittima, rovinando verso significati più banali quali «sentimento», «emozione» o «stato d’animo».

Non che egli neghi per se stesso la possibilità dell’emozione, tanto meno all’osservatore delle sue opere: tuttavia, rispetto all’essenza enigmatica dell’arte ‒ e della quale la sua pittura è inequivocabilmente partecipe ‒ l’emozione ha carattere accessorio, se non addirittura fuorviante allorché, per mezzo di essa, ci si illuda di poter sciogliere l’enigma e renderlo in qualche modo accessibile. Percorrendo la breccia sviscerante che Martin Heidegger ha aperto nell’estetica, Barison intravvede nel confondersi tra la concezione originaria di αἴσθησις (sensazione, da intendersi come «apprensione sensibile nel senso più ampio») e quella di esperienza vissuta (Erlebnis, nel repertorio heideggeriano) una deriva nella quale l’arte ha, poco alla volta, abdicato alla sua essenza.

Dovendo interrogarci su cosa mai sia questa essenza dell’arte, è Giorgio Agamben a proporre ‒ anche lui sulle orme di Heidegger ‒ una tesi sulla quale vorrei indugiare: egli parla di «struttura originale dell’opera», la cui funzione consisterebbe nel «far accedere ogni volta l’uomo alla sua statura originale nella storia e nel tempo», cioè allo «spazio della sua appartenenza al mondo».

Per semplificare, si provi a immaginare che l’oggetto-opera d’arte ‒ in questo preciso contesto quella pittorica ‒ abbia funzione analoga a quella del boccascena che, a teatro, separa il palco dalla platea. Il sipario s’apre e si compie ciò che Michel Foucault avrebbe chiamato un’eterotopia, e cioè il venire a contatto tra due superfici, dimensioni o mondi fra loro incompatibili: tramite il combinarsi di oggetti e azioni (le parole, gli attori, i movimenti, la scenografia, i suoni, le luci, i costumi) proprie al mondo sensibile, quello che ci appartiene e già conosciamo, assistiamo al rivelarsi di un mondo inedito e metafisico, quello della finzione drammatica.

Anche il dipinto, quando non si limita a essere semplice ri-presentazione di un oggetto preesistente o pura deriva formale e materiale, apre un sipario tra lo spazio che abitiamo e uno «spazio altro»: il suo compito più autentico è manifestare la presenza dell’oggetto rappresentato, facendo però di quest’ultimo un inedito e un originale, cioè ponendolo come fondativo e rivelatore di un mondo. Quel mondo che l’arte è in grado di rivelare è il solo dove l’uomo (che sia l’artista o lo spettatore) può riconoscersi e accedere alla sua dimensione originale: l’uomo in quanto creatore, in quanto «essere capace di azione e conoscenza».

L’idea agambeniana di struttura dell’opera d’arte ci permette di inoltrarci in un’ulteriore riflessione, che interroghi stavolta i concetti di forma e di materia nella fine sintassi pittorica di Marcello Barison. Per procedere, mi sembra opportuno ricorrere all’immagine della palude, con cui l’artista ha deciso di titolare la sua prima personale barese. La palude approssimativa di Barison chiama in causa l’ultimo, portentoso scritto di Giorgio Manganelli, La palude definitiva, pubblicato postumo da Adelphi nel 1991. Il libro è la cronaca monologa del viaggio immaginifico e angoscioso di un cavaliere che, accusato nella propria città di aver commesso un crimine che non gli è dato sapere (sorta di novello Josef K. del Processo kafkiano) si vede costretto a attraversare la palude definitiva: un luogo in cui «è difficile entrare e impossibile uscire»; «una distesa di liquida esistenza, di decomposizione che continuamente si ricompone per decomporsi infinitamente».

La scelta di tale titolo non è affidata al caso, benché essa non intenda stabilire alcun legame diretto tra i dipinti presenti in mostra e gli eventi narrati nel racconto manganelliano. Un’unica, importante corrispondenza ideale sembra però legare la palude di Barison a quella di Manganelli: mi viene da pensare che sia l’incessante mutare forma di un luogo che è sempre lo stesso, e che quel luogo sia precisamente la pittura. Essa è la palude che il filosofo Barison osserva e nella quale il pittore Barison s’inoltra. Un esercizio metastabile e morfogenetico, ove la materia del mondo conosciuto si riconfigura in un mondo inedito, per mezzo di «deformazioni, alterazioni, abrasioni, sovrapposizioni, scrostamenti, fluidificazioni, scorrimenti, subduzioni», il tutto sottoposto a un regime estetico rigoroso e coerente, meticolosamente sorvegliato e perciò distante dalla pittura detta informale, dove tramite processi affatto morfogenetici ma aleatori, si approda alla completa dissoluzione della forma e a una condizione di puro indistinto estetico.

Lungi da ciò, Marcello Barison si inserisce coscientemente in tutt’altro lignaggio, e chiama a sé quali suoi avi pittori come Arshile Gorky o Afro Basaldella. Da quest’ultimo in particolare, egli sente di aver appreso «cosa significhi sorvolare il caos, ad un tempo per acquisirlo e farlo traspirare, lasciando che sia esso a suggerire i segni, ad emettere le forme chiedendo al pittore di saper accoglierle». Questo saper accogliere le forme e i segni suggeriti dal caos è un procedimento pittorico che Barison paragona a una «catastrofe controllata», immagine che si addice splendidamente al continuo ancorché immobile comporsi e disfarsi di glomeruli, flussi, escrescenze e depressioni, che talora si addensano verso il centro dello spazio, talora l’attraversano da parte a parte, o lo pervadono a guisa di rizoma.

Come il cavaliere che attraversa e osserva la palude dalla quale non potrà più uscire, compenetrandola e diventando tutt’uno con il suo enigma, al punto da riscoprirsene l’artefice, così l’artista-filosofo che aspira a fondare e rivelare mondi osserva la catastrofe. Egli si chiede quale sia la sua missione, nell’attesa che il caos guidi la sua mano:

«E io, chi sono? […] lo stratega che muove i pezzi avversi; o anche e soprattutto il progettatore dello spazio, delle metamorfosi, del conflitto. […] E vedo, per la prima volta, non la palude trasformata, ma la palude nell’atto di trasformarsi; vedo muoversi le lagune, vedo l’acqua nervosamente spostarsi, mi chiedo quale disegno ne emergerà».

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